La democrazia. Per una teoria politica

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di Francesco FINUCCI

Con l’apertura di una nuova fase nella crisi del debito in Grecia il dibattito dei non-allineati al pensiero della politica come scontro tra creditori e debitori si è progressivamente ancorato sulla dialettica tra democrazia e neoliberismo. Questa democrazia – o meglio questa teoria democratica – necessita però di una revisione profonda, forse irreversibile.

Fin dall’infanzia, la mia generazione è stata cresciuta nell’idea che esistano due modelli di vita: quello democratico e quello totalitario. Solo in quest’ultimo ci verrebbe chiesto un sacrificio definito dal modello politico – a seconda dei bisogni della società- in un preciso rapporto tra lo sforzo a noi necessario per assicurare la protezione dei nostri interessi (diciamo: x) e quello che gli altri attori sociali vorrebbero idealmente da noi per soddisfare tutti i propri bisogni (diciamo: y). Nei totalitarismi, con le loro storie distopiche di stakanovismo da una parte e militarismo dall’altra, il rapporto tra y e x sarà sempre così alto da richiedere l’esaurimento delle nostre risorse personali, siano esse semplicemente economiche, o addirittura morali o fisiche. Un legame, insomma, fino alla morte. Non a caso Gentile ne parla come “religioni della politica”. Tutto è dovuto allo Stato, affinché il sistema mantenga la propria armonia e/o il proprio ordine.

Nelle società democratiche, invece, il principio di fondo rimane quello di una “democrazia a somma zero”: lo sforzo richiesto “y” è in linea con il raggiungimento di un equilibrio tra gli attori, dove ognuno perora la propria causa come può, inseguendo il proprio interesse individuale. La democrazia – insomma – è una equilibrata, pacata e pacifica somma di egoismi personali. Oppure:

x1+x2+…+xn=costante

mentre per ogni sforzo “x” esiste una unica variabile: l’interesse dell’individuo, che mettiamo per semplicità sia proprio i1 (al contrario nel totalitarismo avremmo i1,2,3…n):

x=f(i1)

Fuori da ogni calcolo matematico, questo significa qualcosa di molto semplice: anche considerando un attore – in questo caso un cittadino – come razionale (capace di perseguire il proprio interesse) e analitico (capace di ricorrere a schemi specifici per comprendere la realtà), il cittadino avrebbe di fronte a sé un processo molto semplice, per il quale non dovrebbe che rispondere a poche domande:
– Cos’è il mio interesse?
– Come faccio a soddisfare il mio interesse?
– Come faccio a tenere per me quei beni ottenuti necessari per soddisfare il mio interesse?

Il procedimento che se ne ottiene è di fatto piuttosto semplice e veloce, non richiede un ragionamento molto più avanzato di quello che serve ad una scimmia di prendere un frutto dall’albero e mangiarlo, almeno dal punto di vista morale: persegui l’ottenimento di quello che vuoi, ci penserà poi la natura a soddisfarti con un equilibrio capace di mantenere per te un livello sufficiente di cibo. L’etica è marginalizzata, se non in una forma di adesione ad una dottrina morale che è quella formalizzata nel riconoscimento delle istituzione atte a riprodurre la democrazia, ossia il parlamento, la magistratura, il governo, etc.

Se si riconosce nel neoliberismo post-Guerra Fredda una distorsione di questo strumento della democrazia verso l’equazione interesse=denaro/potere, allora si vede subito come anche le dinamiche più complesse ma fondamentali del diritto pubblico (interesse/diritto) e della risoluzione dei conflitti (interesse/bisogno) tendono a perdere di significato, perché l’interesse non solo finisce per diventare monodimensionale, ma soprattutto inaridisce ogni relazione e confronto tra l’interesse stesso e altre variabili che dovrebbero condizionare le scelte degli individui.

In tal senso, è interessante notare come una democrazia che potremmo definire liberista (come opposto a quelle riconosciute dal diritto pubblico come liberale e pluralista) finisca per richiedere un impegno che scivola nella sfera privata dell’individuo, e non più in quella pubblica del cittadino: un impegno del fare e dell’ottenere. Ambizione, concorrenza, spirito di sacrificio si muovono così dai partiti dentro le aziende, e il ritorno deve quindi essere certo e individuale. Questo significa non solo che l’attivismo diventa una caratteristica ormai a-politica, trasformandosi in proattività, ma anche che il fulcro di questo attivismo e quindi delle attività sociali viene completamente rovesciato: non più l’unità-totalità della società totalitaria, ma il suo più piccolo frammento, l’individuo. Attorno ad esso si crea una serie di cerchi concentrici la cui funzione è quella di definire una gerarchia di preferenze, dalla cerchia più ristretta – bisognosa di una tutela ferrea da parte dell’individuo – a quella più estesa.

Se infatti la preservazione di sé non è altro che la preservazione della società, allora preservare il proprio io è la priorità massima, seguita dalla cura della famiglia, poi degli amici, dei conoscenti, dei concittadini, dei connazionali, delle nazioni vicine/amiche/correligionarie, e infine del resto del mondo.

La stupefacente funzionalità di questo modello è nel fatto che esso coltiva la dimensione politica più “spontanea” dell’individuo: l’istinto di conservazione. Rimane in sostanza allineato con il flusso che emana dall’uomo come proiezione della sua volontà sul mondo, proiezione il cui fine è quello di manipolare il reale fino a far raggiungere ad esso una forma il più possibile simile a quella ottimale per l’individuo. Rovina dei totalitarismi che si basano sul sacrificio di sé è in parte questa: una contrarietà a questo flusso che offre una resistenza in dimensioni, intensità e continuità tali da far “rompere il giocattolo”, o da far emergere le contraddizioni mostruose tra il paradiso promesso e l’inferno fatto emergere dal sottosuolo.

Se la prosecuzione ossessiva e criminale del totalitarismo nel suo tentativo di macinare, elaborare e mutare il mondo intero è il suo peccato mostruoso, la sfida della democrazia come perseguimento patologico di sé è proprio la sua naturalità, la sua soffice e automatica seduzione. La liberazione dall’altro gioca qui un ruolo fondamentale per allentare i nodi soffocanti del totalitarismo, ma anche nel creare nell’individuo i lacci che tenteranno di soffocare il suo vicino meno vicino. Che fare contro un modello di democrazia che ha nel debito – nell’io voglio, io pretendo, io ho il diritto di avere – il suo collante di base? Sì può pensare una ridefinizione del concetto pre-totalitario del “guardiano” platonico preposto a tenere a bada le genti?
Io credo di no. Non si può riproporre un concetto del pensiero platonico prima, religioso poi e politico nelle sue fasi più recenti. La distinzione agostiniana tra l’amore di sé e l’amore di Dio è un concetto che trasuda autorità perché cerca nell’autorità un garante che si faccia artefice dell’ordine, un “guardiano dei guardiani”, potremmo dire. E che ci sia un guardiano che definisca per gli altri cosa significhi essere guardiano, che distingua il giusto e l’ingiusto secondo la propria coscienza, anche se è una coscienza politica e non giuridica, è qualcosa che non andrebbe a ridefinire la democrazia, ma a ridurre quest’ultima al feticcio di avanguardisti avidi di seguaci.

Che di nuove ontologie non ne servono, questo lo si dovrebbe capire dalle difficoltà nell’affrontare la religione come sistema etico quando questa affonda nel dogma del credere in un creatore, dogma inaggirabile in termini puramente analitici.

Una democrazia non si può scrivere, specialmente in un testo che voglia ridefinire la democrazia. Se c’è qualcosa che si può dire senza promettere alcuna redenzione (e senza nemmeno voler trascinare), è un qualcosa di pre-politico, molto più vicino al nucleo dell’umano di qualsiasi discorso politico.

Ognuno ha una propria via, e una serie di eventi che necessitano di scelte.

Per questo una democrazia non può essere che microfisica, frammentaria, pulviscolare e transitoria. Ogni scelta è una scelta che – al diavolo il neoliberismo – coinvolge più variabili evidenti di quante se ne possano calcolare (e più variabili reali di quante se ne possano pensare).

Alla base, alla radice di questo non ci può essere che un pensiero, quello dell’affermazione della prossimità predicata da Levinàs, come un “essere prossimo” che prescinda dalla vicinanza geografica, dai legami, anche semplicemente dal riconoscimento di diritti su una base di reciprocità. Essere vicini al cuore come essenza della vita umana e base necessaria di ogni azione che abbia una dimensione morale e poi politica.

Questo non può prescindere dall’idea che x1+x2+…+xn non possano essere costanti. Cioè che lo sforzo come atto politico non possa prescindere dal concetto di rischio, e che quindi la relativa scelta consideri tra le variabili la possibilità di farsi male. Altrimenti, l’unica forma di democrazia sarebbe quella di una tolleranza di un “altro” funzionale alle nostre necessità, e non una cooperazione atta a raggiungere un livello di soddisfazione generale in linea con la nostra idea di giustizia.

Se c’è qualcosa di necessario – come esseri umani prima che come cittadini – è la cooperazione. La cooperazione si basa, certo, su alcune regole del gioco, così che ci sia possibile prevedere e capire le scelte dell’altro, nonché rendere ripetibile l’interazione. Quello di cui necessita di più è però qualcosa di molto più basilare, elementare e umano, affinché la democrazia non si riduca ad una meccanicistica cerimonia: l’amore. L’amore – in piena tradizione rowlinghiana (proprio la J.K. Rowling autrice di Harry Potter) – lascia un segno. Ed è molto difficile contrastarlo. Anche con l’odio.

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