di Dunia SARDI
Come ogni giorno, quando aveva il turno di mattina, Giulia era arrivata al cancello della fabbrica trafelata e con i capelli scarruffati; aspettava sempre l’ultimo minuto ad alzarsi tanta era la fatica che le costava. Da quando sua madre cominciava a chiamarla, verso le cinque e mezzo, a quando metteva le gambe fuori dal letto di solito passava un quarto d’ora e a volte sua madre doveva aiutarla a vestirsi quando era ancora mezza addormentata; il lunedì specialmente era difficile farle aprire gli occhi che sembravano incollati dal sonno; era andata a letto a mezzanotte la sera prima, d’altra parte Giulia aveva quindici anni e la domenica sera voleva andare a ballare. Scendeva le scale come una sonnambula e giù, in cucina, beveva in fretta una tazza di caffè e latte poi si metteva nel marsupio di tela le due fette di pane con la mortadella o con la marmellata che le aveva preparato sua madre e usciva con la sua bicicletta Bianchi; mentre pedalava più forte che poteva il vento fresco del mattino le sferzava il viso e le sgombrava la mente; ora era sveglia del tutto e pensava che a quel punto il più era fatto.
Già, per lei era meno faticoso lottare con i filati e le rocche di lana da rappezzare correndo su e giù per otto ore avanti e indietro alla macchina piuttosto che lottare con il sonno che la inchiodava a letto e staccarsi dai sogni senza aver visto come andavano a finire. Così arrivava in fabbrica ansante per aver pedalato a tutta birra e timbrava la cartolina sempre pochi minuti prima delle sei.
Correva a infilarsi la vestaglia blu, raccoglieva i capelli lunghi e ribelli in una treccia e entrava nel suo reparto come una folata di vento. Prima che i piccoli gruppi delle compagne cominciassero a sciogliersi, si fermava con loro per ascoltare, curiosa, le novità della domenica sera; di solito le ragazze, approfittando dei pochi minuti che restavano prima del secondo suono della sirena, si raggruppavano per raccontarsi storie di fidanzati o di giovanotti che le facevano confondere.