di Vincenzo G. PALIOTTI
Voglio fare qualche considerazione sul Jobs Act e sull’abolizione dell’art. 18 e sugli effetti che (non) ha determinato dal momento del suo varo ad oggi rispetto a quello che tutto che i fan del Presidente del Consiglio si aspettavano da questa riforma.
Perché le aspettative erano tante, bastava che solo una parte dei “benefici” elencati dal premier segretario si avverasse perché anche io, sempre critico e contrario, avrei dovuto convenire che, poi, tutto sommato “ci voleva”. E invece mi trovo ancora una volta a dire: “lo sapevo”.
Nell’approvare questa riforma non si è tenuto conto del fattore predominante, della materia che si trattava che è estremamente complessa, delicata e difficile. Non si crea lavoro potendo licenziare più facilmente.
Dal punto di vista della mia esperienza lavorativa di quasi quarant’anni posso dire che gli esperti in materia, quelli che di solito curano gli interessi della controparte, l’azienda, questo “dettaglio” lo hanno sempre ignorato dall’alto della loro arroganza e dalle loro posizioni agiate, intoccabili, che, della precarietà altrui, ripeto altrui, si sono sempre curati poco.
Basti ricordare l’ammissione del prof. Ichino per il quale l’abolizione dell’articolo 18 serviva in pratica solo per poter licenziare più facilmente, eppure aveva anche lui teorizzato che questa cosa avrebbe aiutato il mercato del lavoro: a favore di chi vedeva i diritti dei lavoratori come il fumo negli occhi, aggiungo io.