di Ivana FABRIS
In questo ultimo periodo molti sipari si stanno alzando lasciando definitivamente intravvedere la realtà. Una realtà ormai completamente nuda. E cruda.
Crudo è guardare il treno ungherese, quel treno carico di dolore, di disperazione, di umiliazione di povere genti, brutalizzate dalla civile e moderna Europa che ancora una volta si è macchiata le mani di un crimine contro l’Umanità.
Umanità, che bellissima parola…
Una parola che in sè racchiude un mondo di immagini e di sensazioni calde e pacificanti, rassicuranti e luminose se pensiamo ad essa come al sentimento che dovrebbe connotare i popoli della Terra, tutti, senza distinzione di pelle, di religione di sesso e di censo.
Una parola che dovrebbe evocare esclusivamente sentimenti di dolcezza, di solidarietà e di affettività perchè racconta la fratellanza, quando la riferiamo al genere umano.
Eppure il tempo che viviamo ha svilito tutto il suo senso più alto e nobile.
Siamo sempre più isolati, sempre più guardinghi e sempre più afflitti da comportamenti che sfiorano la patologia quando addirittura non la esplicitano completamente.
L’anaffettività ci circonda e impregna sempre più ogni fascia sociale. Il conflitto non è più tra classe borghese e classe lavoratrice ma soprattutto tra tutti i ceti che costituiscono la società partendo dalla base della piramide, spesso solo per invidia e per una competitività mutuata, come comportamento, dalle classi più agiate.
Il solidarismo è quasi sparito persino nelle classi meno abbienti che lottano fra loro per avere un frammento in più di vivibilità ed è sgomitato di lato dal familismo amorale che permea con pervicacia quei ceti che ancora pensano di essersi salvati da soli.
E, l’unica verità, è che nessuno si è salvato da solo, unicamente siamo tutti più soli.